L'esperienza

Percentuale disoccupazione tra i 15 ed i 24 anni (fonte ISTAT)
In un Paese in cui la disoccupazione giovanile è in continua crescita da circa sette anni, e sta arrivando quasi alla metà esatta dei potenziali lavoratori di quella fascia di età, in cui al di là dei picchi degli ultimi anni, la tendenza alla disoccupazione dei giovani si è sempre attestata attorno al 25% e comunque mai sotto il 20% (almeno negli ultimi 30 anni), e con le età di pensionamento che slittano man mano verso i 70 anni per le generazioni dei trenta-quarantenni attuali, diventa molto difficile capire in che modo si possano ancora sostenere le politiche di assunzione che ad oggi la maggioranza delle aziende - specie di quelle medio-grandi e ultra-specializzate - utilizza ancora.
Leggi e norme ce ne sono state e ce ne saranno con molta probabilità nel prossimo futuro, e sono quasi necessarie, a questo punto, sebbene la tendenza (molto nostrana) all'inflazione normativa rischi di diventare peggio della malattia. Ma il problema sembra più di mentalità, in un certo senso con modalità grosso modo analoghe a quelle che hanno portato all'orrenda necessità delle quote rosa.
Pur assumendo, infatti, che nella fascia d'età in esame negli ultimi 10-15 anni sia drasticamente aumentato il numero delle figure super specializzate e dei laureati (almeno nella fascia d'età più alta), quindi alla ricerca di lavori più specifici e magari più "difficili" da ottenere per chi ha poca esperienza, resta l'amara verità di avere almeno un quarto dei giovani a spasso da almeno 30 anni.

Una delle chiavi di lettura direttamente osservata è il modo molto particolare con cui le aziende tendono a considerare la totemica Esperienza, principale fonte di lavoro e di giusto approvvigionamento di salario. Cosa buona e giusta, se fosse osservata come assommazione di capacità acquisite, esperienze vissute, cariche ricoperte e capacità affinate nell'esercizio delle proprie funzioni. Cosa ridicola se si sostituisce tal quale l'anzianità di servizio, il mero conteggio degli anni passati in posizioni lavorative similari o in assoluto, con quanto sopra detto.
Purtroppo è proprio questo che viene fatto pedissequamente, e ciò non può che danneggiare i più giovani, che solo sulle poche capacità acquisite e sulle conoscenze pregresse (si veda, ad esempio, la maggior flessibilità verso le nuove tecnologie) possono far leva.
Un serio ricambio generazionale non può non passare da questo, perchè se ad un giovane neolaureato con minima esperienza da stagista ma con solide basi teoriche e maggiori capacità di crescita si continua a preferire un consulente anziano, magari già in pensione, valutato esclusivamente sulla citata esperienza calendariale, muore ogni tentativo di rinfrescare le linee, si congela ogni capacità di rinnovamento (sotto tutti i punti di vista), ma soprattutto vanno in rovina tutte le possibili e benefiche ricadute sull'intero sistema economico nazionale.

Io continuo a sognare un futuro in cui si dia sempre più possibilità ai più giovani di mostrare l'enorme potenziale di crescita (e quello, consequenziale, di accrescimento aziendale stesso), non rinunciando all'effettivo bagaglio di vita lavorativa vissuta dei "senior", ma rinunciando a sfruttarlo in senso manageriale e cominciando a farlo marciare come tutoraggio. Qualcuno, nel mondo (USA, UK, Nord Europa...), l'ha già compreso: e se con manager di medio livello di 35-40 anni quei paesi sono riusciti a tenere ferma la barra nella tempestosa crisi e nelle successive mareggiate che continuano di volta in volta a tempestare il mondo attuale, un motivo ci sarà pure...

Buona vita.

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