Nostalgie - parte 1

Arnaldo era solo. Non che gli importasse, ma era una condizione con cui doveva convivere e che
doveva accettare. Qualche amico, certo, qualche collega con cui interloquiva meno malvolentieri di altri, sicuramente, qualche conoscente che di tanto in tanto condivideva con lui le sale della palestra di pugilato che frequentava o gli spogliatoi di qualche campetto dove si concedeva qualche partitella di questo o quello sport. Ma era solo.

Non era nemmeno una questione di occupazione fisica degli stessi spazi quotidiani, quindi, né un fatto legato ad una mancanza di contatto umano sufficientemente continuativo o, perlomeno, in dosi sufficienti da percepirne una sorta di calore risultante. Non proprio una solitudine, insomma, intesa nel suo valore semantico più comunemente percepito. 

Percezione, ecco, era forse quella la parola chiave: Arnaldo si sentiva solo. Arnaldo viveva la sua quotidianità sentendo che ogni sforzo alla ricerca di un qualunque senso di soddisfacimento, personale o sociale che fosse, non era in grado di condividerlo con nessuno. Un viaggio a destinazione ignota, su un treno completamente vuoto che percorreva un paesaggio buio e su cui era macchinista, capotreno e passeggero nello stesso tempo. Ogni tanto dai finestrini un lampo di luce dalle stazioni che passava gli permetteva di passare velocemente in rassegna altri passeggeri in attesa di altri treni, ma ci si allontanava così velocemente che non aveva nemmeno il tempo di cogitare sulle mete di ognuno di quei viaggiatori. Come una persona sola, appunto, ma troppo indaffarata per potersi occupare del tutto della sua condizione e potervi, magari, porre un rimedio. Anzi, non avrebbe saputo né voluto porvelo.

Ogni mattina il suo telefono, alle 5.45 in punto, suonava un'inutile sveglia che lo sorprendeva già in piedi da una buona mezz'ora almeno, nell'atto di infilarsi in un abbigliamento adatto alla sua corsa mattutina. Alle 6.00 era già fuori casa, rigorosamente digiuno, cardiofrequenzimetro impostato, mappatore di percorsi settato e playlist avviata esattamente un secondo prima di aprire il portone del condominio e di riversarsi in strada. Voltava a sinistra, sempre, in direzione del fiume, 6 min/km di andatura, variabili al punto giusto in modo da rimanere costantemente tra i 120 e i 130 battiti al minuto. Viale Trastevere, tutta, fino a ponte Garibaldi, a destra verso la scalinata che porta alla banchina, a meno che la pioggia e il fiume gonfio di pioggia non gli suggerissero di proseguire direttamente sul marciapiede del Lungotevere, comunque fino a ponte Sublicio. Da lì Porta Portese e tutto il tratto di via Portuense fino a Largo Toja, percorrendo la ciclabile precisamente sul lato di mano. Quindi di nuovo a destra, sù per via Ippolito Nievo, con i muscoli che iniziano a impregnarsi di lattato nello sforzo finale della salita. Ancora a destra per la piazza e dritto di nuovo davanti al portone, normalmente intorno alle 6.30.

Cinque chilometri quasi esatti. Cinquemila metri a pensare solo a distribuire razionalmente ogni goccia di energia, con il sottofondo di chitarre distorte a diga dei rumori della città che si risveglia e che inizia già a diventare molesta.

[CONTINUA]

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