Se otto ore vi sembran poche - Il "tempo pieno" e la scuola italiana (Parte 1)

Parlando di settimane corte mi è tornato alla mente un progetto che avevo in cantiere da qualche tempo e che, senza molte pretese, offrisse ai lettori una panoramica esaustiva dell'attuale stato della scuola pubblica italiana, in particolar modo dal punto di vista delle storture e delle contraddizioni che sempre più spesso si accompagnano ai vari tentativi di "ammodernamento".
Un'idea che non nasce - mettiamo le cose in chiaro - da chissà quale intuito pseudogiornalistico, ma dalla mera osservazione della realtà che devono subire i ragazzi e i loro genitori, tra cui, appunto, il sottoscritto.

Tra le cose che mi hanno colpito, nello specifico, le trasformazioni del tempo scuola è tra quelle più importanti, perchè partendo da presupposti pedagogici di non indifferente importanza, si è modellato sulle esigenze dell'evolvente famiglia italiana e rischia di finire per imporre a tutti (genitori compresi) un modello produttivo in cui non è certo chi produce ad essere al centro del discorso. È di questo che ci andremo ad occupare nelle prossime settimane ogni martedì, ma sarà solo l'inizio del nostro "viaggio che non promettiamo breve" attraverso la storia, le leggi e le derive dell'organizzazione scolastica italiana, con molto riguardo alle singole storie personali che andremo a raccogliere man mano, fino a valutare sotto molteplici punti di vista - non da ultimi quello politico e sociale - lo stato attuale di forme e modalità dell'istruzione italiana.

Piccola nota: come detto, questa non vuole avere la pretesa di essere una specie di reportage esclusivo e, tolti la ricerca storica verificabile, ruoterà inevitabilmente attorno all'ambito di esperienze specifiche in qualità di genitore, quindi molti degli esempi e delle considerazioni riguarderanno soprattutto la scuola primaria.

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L'invenzione del tempo pieno: breve storia italiana

Il nostro viaggio parte dal secondo dopoguerra, dalla ricostruzione non solo fisica di un Paese che usciva a fatica dalle macerie lasciate dalle bombe, dalla miseria e dalla dittatura che aveva cagionato le prime due.
La scuola era stato uno strumento fondamentale della propaganda del regime, il cui capo, non a caso, definì quella del 1923 come "la più fascista delle riforme". A maggior ragione, rimaneva strumento fondamentale anche per il conquistato regime democratico, che fin da subito ebbe evidente la necessità di depurare l'impanto scolastico delle scorie che il fascismo aveva lasciato a tutta l'organizzazione, dai programmi alla struttura del corpo docente e di quello dirigente. Ugualmente da subito si attivarono le prime miopi resistenze a una riforma più ampia e organica, specialmente da parte dei cattolici che temevano di perdere il ruolo educativo e il peso che cultura e morale cattolica aveva ottenuto nel tempo.
In assenza di un programma di riforme condiviso con tutti nell'immediato, la morfologia come anche i metodi della scuola rimasero, dunque, gli stessi previsti da Gentile almeno fino a tutti gli Anni Cinquanta, con cinque anni di elementari e tre di scuola media o professionale, con orari e calendari fissati a livello ministeriale ma diversamente gestibili a seconda delle esigenze locali. Tipicamente le 24 ore settimanali richieste erano modellate con o senza rientri: nel primo caso gli alunni erano chiamati a svolgere un programma di 4 ore giornaliere dal lunedì al sabato compreso, nel secondo caso si avevano tre ore al mattino e due al pomeriggio intervallate da una pausa per il pranzo di due ore, con frequenza di cinque giorni a settimana e riposo infrasettimanale oltre a quello domenicale.
Parliamo, come detto, di un periodo duro in cui l'Italia si trovava ad affrontare la ricostruzione in vera e propria emergenza, e dove il refettorio delle scuole era garanzia di un pasto caldo, per quanto si trattasse di una istituzione associata perlopiù alle scuole cattoliche che in quelle statali. Erano pure, va detto, anni in cui i più umili restavano tali, perchè a casa c'era bisogno di braccia in più per mettere il pane sulla tavola e non si poteva mica perdere tempo a stare sui banchi, e probabilmente l'impostazione perlopiù antimeridiana del modello scolastico risentiva anche di queste esigenze sociali, oltre che delle precedenze di stampo gentiliano.

Solo nel decennio successivo si riuscì a mettere ordine in modo più strutturato, ma soprattutto iniziarono a diffondersi nella scuola italiana i primi germi di quella che veniva vista come una vera e propria rivoluzione pedagogica: vanno rivisti tutti i modelli, vanno ripensati i ruoli e i metodi, vanno rielaborate le idee che sono alla base di tutta la struttura educativa.
A Barbiana, in provincia di Firenze, un prete fondava la propria scuola sull'inclusività e l'eliminazione delle differenze sociali, e mostrava all'intero Paese le contraddizioni tra ciò che l'istituzione si preferiggeva e ciò che era in grado di mettere in atto. Numerosi movimenti culturali suggerivano nuove forme organizzative e didattiche, un nuovo rapporto tra studenti e docenti.
E un nuovo modo di pensare il tempo di permanenza a scuola...
L'idea è quella di vivere la scuola come elemento focale dell'esperienza formativa dei ragazzi, ad eliminazione di ogni differenza di provenienza sociale e culturale, che attraverso un'estensione del tempo scuola permetta di espandere lo spettro di risposte alle diverse esigenze educative, ampliando l'esperienza didattica ben oltre il canone. Per mettere in pratica ciò, la scuola deve anche imparare ad aprirsi al territorio nei modi più consoni a valorizzare le esperienze di ogni frequentatore (docenti compresi), aprendosi inoltre alle necessità delle famiglie e favorendo la loro partecipazione in ogni modo. La chiave di tutto ciò è, appunto, l'estensione del tempo scuola, arrivata infine con la legge 820 del 24/9/1971: il testo, con le successive integrazioni e le direttive ministeriali correlate, istituzionalizza l'opzione di un orario esteso da 25 a 40 ore settimanali spalmate su 5 giorni, che prevede la somministrazione di materie alternative, corsi integrativi, laboratori specialistici, esperienze musicali e attività sportive nel cosidetto curriculum pomeridiano.

La risposta di ritorno non è affatto uniforme non solo in termini di richiesta (prevedibile per le differenti condizioni sociali tra il nord e il sud del paese, tra le campagne e le aree urbane), ma anche in termini di effetti organizzativi: ad alcuni centri di eccellenza e sperimentazione si affiancano meri prolungamenti del tempo dedicato alla didattica canonica, con nuove difficoltà e altre sfide da superare. E, purtroppo, sembra essere questo ultimo modello a prendere il sopravvento sulla maggior parte delle esperienze dello stivale, tanto da far rivedere al legislatore alcune delle precedenti posizioni: le prime sperimentazioni degli Anni Ottanta sfociano nella legge 148 del 5/6/1990, che formalizza il passaggio ad un massimo di 30 ore settimanali, con diverse modularità di "rientro" pomeridiano. La legge deve necessariamente assumersi l'onere di "leggere" il nuovo scenario sociale italiano, con la sempre maggior occupazione femminile, il consolidamento dei nuclei famigliari nelle nuove forme e il nuovo "ruolo" dei bambini all'interno della famiglia stessa. Nonostante, quindi, i risultati dall'alterna chiave di lettura, il tempo pieno continua ad essere preferito (specie dal corpo docente) a causa dei diversi ritmi e della maggiore "serenità" generale dell'ambiente: la contrapposizione è, chiaramente, con l'autorevolezza severa e rigida con cui veniva vissuto il modello precedente.

Tra ripensamenti e ritorni, il tempo pieno si riafferma quindi in un contesto in cui sono sempre più le esigenze organizzative a dettare la linea, mentre si perde nel tempo la funzione pedagogica e sociale che ci si era prefissati fin dall'inizio: le 40 ore settimanali dei bambini coprono quelle lavorative dei genitori, che con qualche ora di doposcuola a pagamento in più possono gestire la famiglia in modo più congeniale ai tempi moderni, gli insegnanti possono gestire ore extra, e i bambini vengono immersi in un ambiente formativo totale, eliminando ogni differenza legata alle diverse estrazioni socio-culturali.
Tutti vincono.

O no?

[FINE PARTE 1]

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