Nella Parte 1 abbiamo conosciuto la storia dell'introduzione del tempo pieno nella scuola dell'obbligo italiana come parte di un processo evolutivo volto a trasformare la stessa in un luogo maggiormente inclusivo, più giusto, più partecipativo e più ampio quanto a proposte didattiche.
Abbiamo anche visto come negli anni tutto il valore pedagogico della proposta si è andato via via perdendo, fossilizzando l'offerta a mera versione a tempo esteso di quella tradizionale in risposta alle mutate esigenze organizzative delle famiglie. Ancora oggi, in effetti, tutte le proposte di rinnovamento didattico puntano grosso modo a quel modello ormai perso: a parlar di tutor, di corsi integrativi, di sviluppo delle competenze ci si è dimenticati di guidare gli insegnanti che, appunto, usano il tempo pieno in prima persona e ne fanno strumento di estensione delle proprie ore di attività didattica. Senza troppo fronzoli.
Ma prima di andarci a impelagare su questo aspetto, vediamo un po' di numeri, di dati statistici oggettivi: che peso ha avuto e ha il tempo pieno oggi? Quali scelte fanno le famiglie e con quali alternative?
Anzitutto, è bene ricordare che la scelta (e la conseguente fruibilità) del tempo pieno nella scuola non è uniforme in tutta Italia, con un peso molto maggiore al nord rispetto al resto del paese: prescindendo (ed è un errore) dalle differenze dei vari modelli scolastici nel corso degli ultimi venti anni, leggere semplicemente il dato nazionale significa leggere un dato parziale che ci racconta un generale aumento della richiesta di almeno 20 punti percentuali tra il 2001 e il 2019, come se la spinta alla scelta del tempo pieno fosse generalizzata.
Basta prendere gli ultimi tre anni scolastici in esame per vedere che a rafforzare la spinta nazionale (34.1% nel 2016/2017, 34.3% nel 2017/2018, 36.5% nel 2018/2019) è stato soprattutto il Nord Ovest - con maggior peso della Lombardia - con percentuali oscillanti sempre intorno al 40% delle iscrizioni, mentre percentuali molto simili nei tre anni sono state sviluppate dalle altre aree: il Centro, ad esempio, continua ad oscillare stabilmente tra il 26 e il 27% delle iscrizioni, con variazioni tra un anno e l'altro in perfetta sintonia con il resto del paese (Nord Ovest escluso, ovviamente).
Le motivazioni sono piuttosto ovvie e riguardano i modelli famigliari e la capacità delle famiglie di coordinare ore lavorative di entrambi i genitori e tempi scuola, con le palesi differenti tra nord e sud, certo non Ma, nonostante tutte le sponsorizzazioni del modello, nonostante le spinte ministeriali/governative, nonostante le scuole optino sempre più per aumentare le classi tempo pieno a discapito di quello normale, vediamo non solo che le percentuali nazionali non sembrano sfondare oltre un certo livello, ma che anche a livello locale si sono conosciute contrazioni "armoniche" che al nord ovest diventano anche notevoli (dal 38 al 36% in tre anni).
Allora cosa c'è che non capiamo? Perché questa continua réclame di un sistema passato da modello pedagogico all'avanguardia a parcheggio di bambini a spese dello Stato? Perché, addirittura, si è arrivati a proposte di obbligatorietà del tempo pieno? Proposte, tra l'altro, in cui si ammette candidamente che la proposta servirà anche alle famiglie "per evitare di pagare la baby-sitter"...
Ovviamente non abbiamo la risposta, ma a pensar male di ipotesi se ne possono fare parecchie: dall'attività lobbistica delle aziende che non gradiscono part-time e orari ritagliati a misura di famiglia, dal mito politico della "preparazione pratica" dei ragazzi che così passano facile dalle 8 ore scuola a quelle lavorative, passando magari per assurde alternanze scuola-lavoro. O magari mettere pezze politiche raccatta voti alla situazione organizzativa della pubblica istruzione, aprendo a qualche regolarizzazione di precariati decennali per farla passare da nuova assunzione con la scusa del tempo pieno. O magari un bel miscuglio di queste e di altre concause.
Importa poco, in effetti, perché il risultato è quello che conta. E non sembra essere un risultato soddisfacente: nonostante i miti e le narrazioni politiche, ancora oggi molte scuole faticano a mantenere la necessaria coppia di insegnanti per tutto il ciclo dei cinque anni, gli edifici scolastici soffrono perlopiù di una vetustà che a tratti diventa anche pericolosa, ma che in ogni caso non è adeguata all'offerta che un vero tempo pieno dovrebbe garantire (biblioteche, laboratori, vere palestre, vere sale mensa), con servizi di refezione - ovviamente a carico delle famiglie - e pulizia affidati nella maggior parte dei casi a cooperative e ditte esterne di cui leggiamo ogni tanto sui giornali per l'ennesima ispezione dei NAS magari sollecitata dai genitori.
Non sembra certo il contesto più adeguato.
Abbiamo anche visto come negli anni tutto il valore pedagogico della proposta si è andato via via perdendo, fossilizzando l'offerta a mera versione a tempo esteso di quella tradizionale in risposta alle mutate esigenze organizzative delle famiglie. Ancora oggi, in effetti, tutte le proposte di rinnovamento didattico puntano grosso modo a quel modello ormai perso: a parlar di tutor, di corsi integrativi, di sviluppo delle competenze ci si è dimenticati di guidare gli insegnanti che, appunto, usano il tempo pieno in prima persona e ne fanno strumento di estensione delle proprie ore di attività didattica. Senza troppo fronzoli.
Ma prima di andarci a impelagare su questo aspetto, vediamo un po' di numeri, di dati statistici oggettivi: che peso ha avuto e ha il tempo pieno oggi? Quali scelte fanno le famiglie e con quali alternative?
Anzitutto, è bene ricordare che la scelta (e la conseguente fruibilità) del tempo pieno nella scuola non è uniforme in tutta Italia, con un peso molto maggiore al nord rispetto al resto del paese: prescindendo (ed è un errore) dalle differenze dei vari modelli scolastici nel corso degli ultimi venti anni, leggere semplicemente il dato nazionale significa leggere un dato parziale che ci racconta un generale aumento della richiesta di almeno 20 punti percentuali tra il 2001 e il 2019, come se la spinta alla scelta del tempo pieno fosse generalizzata.
Basta prendere gli ultimi tre anni scolastici in esame per vedere che a rafforzare la spinta nazionale (34.1% nel 2016/2017, 34.3% nel 2017/2018, 36.5% nel 2018/2019) è stato soprattutto il Nord Ovest - con maggior peso della Lombardia - con percentuali oscillanti sempre intorno al 40% delle iscrizioni, mentre percentuali molto simili nei tre anni sono state sviluppate dalle altre aree: il Centro, ad esempio, continua ad oscillare stabilmente tra il 26 e il 27% delle iscrizioni, con variazioni tra un anno e l'altro in perfetta sintonia con il resto del paese (Nord Ovest escluso, ovviamente).
Le motivazioni sono piuttosto ovvie e riguardano i modelli famigliari e la capacità delle famiglie di coordinare ore lavorative di entrambi i genitori e tempi scuola, con le palesi differenti tra nord e sud, certo non Ma, nonostante tutte le sponsorizzazioni del modello, nonostante le spinte ministeriali/governative, nonostante le scuole optino sempre più per aumentare le classi tempo pieno a discapito di quello normale, vediamo non solo che le percentuali nazionali non sembrano sfondare oltre un certo livello, ma che anche a livello locale si sono conosciute contrazioni "armoniche" che al nord ovest diventano anche notevoli (dal 38 al 36% in tre anni).
Allora cosa c'è che non capiamo? Perché questa continua réclame di un sistema passato da modello pedagogico all'avanguardia a parcheggio di bambini a spese dello Stato? Perché, addirittura, si è arrivati a proposte di obbligatorietà del tempo pieno? Proposte, tra l'altro, in cui si ammette candidamente che la proposta servirà anche alle famiglie "per evitare di pagare la baby-sitter"...
Ovviamente non abbiamo la risposta, ma a pensar male di ipotesi se ne possono fare parecchie: dall'attività lobbistica delle aziende che non gradiscono part-time e orari ritagliati a misura di famiglia, dal mito politico della "preparazione pratica" dei ragazzi che così passano facile dalle 8 ore scuola a quelle lavorative, passando magari per assurde alternanze scuola-lavoro. O magari mettere pezze politiche raccatta voti alla situazione organizzativa della pubblica istruzione, aprendo a qualche regolarizzazione di precariati decennali per farla passare da nuova assunzione con la scusa del tempo pieno. O magari un bel miscuglio di queste e di altre concause.
Importa poco, in effetti, perché il risultato è quello che conta. E non sembra essere un risultato soddisfacente: nonostante i miti e le narrazioni politiche, ancora oggi molte scuole faticano a mantenere la necessaria coppia di insegnanti per tutto il ciclo dei cinque anni, gli edifici scolastici soffrono perlopiù di una vetustà che a tratti diventa anche pericolosa, ma che in ogni caso non è adeguata all'offerta che un vero tempo pieno dovrebbe garantire (biblioteche, laboratori, vere palestre, vere sale mensa), con servizi di refezione - ovviamente a carico delle famiglie - e pulizia affidati nella maggior parte dei casi a cooperative e ditte esterne di cui leggiamo ogni tanto sui giornali per l'ennesima ispezione dei NAS magari sollecitata dai genitori.
Non sembra certo il contesto più adeguato.
[FINE PARTE 2]
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